Alcuni giorni fa ragionando sul blog di Marina Guarneri, il taccuino dello scrittore, per dare forza ad una mia teoria ho riesumato un modo di scrivere che usavo ai tempi del liceo. Lo avevo chiamato murfico e ne andavo particolarmente fiero, tanto da averlo adoperato in alcuni miei temi, col dovuto rispetto per il mio professore molto conservatore, di cui però già avevo aggirato le difese obbligandolo a mettermi dei nove per temi in classe letterari o storici poco importava, che io svolgevo sotto forma di racconti. Costretto nel senso che erano scritti troppo bene e rimanevano col racconto nell'ambito del tema voluto.
Marina è troppo intelligente e preparata per fare una piega, tanto più che già conosceva il gliglico di Julio Cortázar.
Nei commenti salta su Luz, blogger col suo io, la letteratura e Chaplin, che facendo riferimento a Fosco Maraini mi invitava a scrivere ancora in murfico.
Naturalmente ho immediatamente esaudito quel desiderio, che era anche il mio, perchè il murfico mi incolla ancora alla pagina, mi riporta indietro ai tempi beati del liceo e già ci avevo scritto in non so più quale blog un paio di poesie.
Ne cito una sola frase per lasciarmi capire
Katiloffando came nen los kotriones de la rubenta orcheqquando al cupido pesiquamente ardilloso s'impriolò di biavida lacca.
Una cosetta così. E oramai mi era entrata nella penna e nella tastiera fuoriuscendo dalla capoccia mia. A quel punto però mi risovvenne che non solo di murfico vivevo, ma addirettura in quella meravigliosa stagione avevo iniziato a scrivere in imperocchese, diverso dal murfico, ma altrettanto stupefacente, al punto che dopo aver iniziato a scrivere poesie in quel linguaggio, che recitavo io stesso in classe con la voce di Ruggero Ruggeri il maggior attore teatrale dell'epoca, mi decisi, sollecitato dallo stesso professore diventato oramai un mio ultras da curva di stadio, a scriverci una commedia, che rappresentammo nel teatro Traiano a Civitavecchia.
La gente non sapeva se ridere o piangere, ma la serata era a scopo benefico e ne uscimmo tutti vivi e tra gli applausi.
Ieri sera sul tardi ero in apnea sprofondato nei miei ricordi ed ho scritto la mia ultima poesia in imperocchese.
Non vogliatemi troppo male, por favor, anche io ho tra i miei lati deboli quelli proprio deboli forte. Io comunque mi ci sono divertito alla memoria.
SQUINTERNANTE IMPEROCCHESE ARGUTO
La rimpinguata stoppa
s'arrovellava nella scarnita cappa
argomentando enfatiche scansie,
brusche effigiando allocuzioni
acquatiche a mo' di meritevoli
scalinate dalla sostanza
illuminata e bifora per la bisogna.
Volgevasi le gote da groppa a groppa,
piovasco il calibro de la sempreviva
calorosamente succube di una
trivella, biascicando notturne
preci ampollose di condimenti
allucinanti, a guisa di bretelle
caledoscopiche nonché raffinate.
Mungevano vacche bianche e variopinte
il proprio latte, svernando con
le brache a tracolla, cavernose
muggendo stancamente nei labbroni
dei mitili abbandonati
al vento della notte.
"Sorgi Petrillo e se vuoi essere
il primo della classe, dillo".
Fu il coro sottopassato dalle poppe
argute delle donne minute
che cercavano motti altosonanti
per sbatacchiare ortaggi e fuorviare
melanzane brucate a tutto spiano.
S'avvilupparono insieme tutti quanti
gli sbattichiappe e si leccarono i baffi
ciondolando dai rami nord e sud
del lago Trasimeno in piena
rivoluzione astrale, mentre
il gorgo si umiliava in processi
dispendiosi. Amen, disse il prete.
Fottiti, rispose il sagrestano.
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Poesia avveniristica numero uno
20 novembre 2017
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